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Edizione del 21/08/2020
Estratto da pag. 1
Si chiamano Fachhochschulen o Università di scienze applicate, sono istituti professionali universitari. La Germania li ha istituiti quando ha verificato che la mancanza di tecnici specializzati stava frenando il sistema industriale e che le vecchie scuole professionali non servivano a formare queste nuove figure di alto livello tecnico mentre potevano continuare a istruire personale non bisognoso di approfondite conoscenze digitali.Questa finestra scolastica, sostengono in Germania, ha avuto (e sta avendo) un ruolo fondamentale nello sviluppo industriale che deve confrontarsi con una competitività internazionale basata sulla capacità d'innovazione e di automazione dei processi produttivi. La Germania ha investito risorse ingenti in tale progetto, avendo chiari gli obiettivi. Ed è riuscito così anche a dare un futuro a gran parte dei propri giovani, con l'asticella della disoccupazione giovanile a livello fisiologico.Un esempio che qualche economista ha proposto di ripetere in Italia e in effetti nel 2010 sono nati gli Istituti tecnici superiori (Its). Ma fatta e festeggiata la legge è subentrato il disinteresse: da parte della politica, che guarda solo al proprio ombelico e non ha erogato i finanziamenti necessari per fare decollare le nuove strutture scolastiche, ma anche da parte degli imprenditori che raramente riescono a volare alto e a interpretare l'interesse generale (che sarebbe anche il loro). In verità c'è qualche eccezione che cerca di emergere qui e là. Ma si tratta, appunto, di eccezioni. Così mentre in Germania chi esce dalle Fachhochschulen appartiene alla fascia alta della società, da noi chi conclude gli studi in un Its è considerato qualche gradino al di sotto di un laureato (magari a distanza) in una delle facoltà nouvelle vague che proliferano nei nostri atenei.Il richiamo di Mario Draghi al Meeting di Rimini non è originale, l'eco che ne è seguita è dovuto alla caratura del personaggio, che può dire impunemente quanto gran parte della politica si rifiuta di ascoltare (salvo riempirlo di elogi di circostanza): se i denari anziché buttati nel reddito di cittadinanza e in quota 100, solo per fare due esempi di sussidi e prebende, fossero stati investiti nell'istruzione, a cominciare dall'avvio di Università tecniche, non vi sarebbe una disoccupazione giovanile stratosferica intrecciata a una scarsa competitività e a un'attività industriale in recessione.© Riproduzione riservata